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lunedì 11 marzo 2013

INDIETRO NEL TEMPO....

Capita a volte di avere nostalgia di storie che si sono lette tempo addietro. LA SPOSA DELL'APACHE di Joanne Redd, è una di quelle storie che rileggo sempre volentieri. E' un vecchio EUROCLUB del 1991 che però e stato pubblicato successivamente anche dalla SPERLING nella collana Super Tascabili.


Lui l'ha rapita per farne la sua sposa, secondo gli usi della tribù; lei non sa nulla degli Apaches, se non che si comportano da selvaggi.
Le agavi del deserto saranno testimoni del loro amore, un amore più forte di tutto, capace di sfidare gli uomini, la Storia, la morte, i secoli e trasformarsi in leggenda.
Questa è la storia di Alison e Ramon, ambientata nel Messico ottocentesco...

Io ho una brutta abitudine, anzi, direi pessima: dopo aver letto la sinossi ed essermi lasciata conquistare, comincio i libri dalla fine, nel senso che leggo le ultime 8/10 pagine e, se il finale mi piace lo comincio, altrimenti aspetto che il libro mi "chiami". Il finale non mi diceva un gran che, così l'ho lasciato là.
La sposa dell'apache mi ha chiamato mesi dopo l'acquisto e devo dire che mi son dovuta ricredere sull'opinione iniziale.
Siamo in un territorio di confine tra l'America e il Messico, in un periodo storico travagliato e decisamente poco propenso all'integrazione. La protagonista stessa per un bel pò avrà difficoltà ad accettare un modo di pensare così lontano dal suo.

Tutto inizia quando Allison, giovane di Baltimora, decide di andare a trovare il padre che abita a Sonora, vicino al confine con il Messico. Allison non è una ragazza comune, non pensa alle frivolezze, non pensa al matrimonio e soprattutto non pensa come si conveniva per le signorine dell'epoca. E' assetata di avventura, vuole conoscere il mondo e sfida convenzioni e famiglia per intraprendere il suo viaggio.
Mentre si trova a Presidio del Nord, ha occasione di vedere Ramon, capo Apache di quella zona, che entra in città. Rimane affascinata dall'uomo che emana un'aura di comando e di virilità assoluta; anche Ramon la nota, pochè Allison, fisicamente, non è una persona comune: è più alta della norma e ha occhi azzurrissimi. Ramon decide che deve averla e la rapisce dal suo letto, portandola nel suo accampamento. 
A questo punto chi legge si aspetta che in qualche maniera si snodi una lotta tra bianchi e indiani per la salvaguardia della ragazza, e invece no!!! A parte  un piccolo appunto verso la fine, non si parlerà più della famiglia di origine della ragazza.
Tutto il libro è incentrato sulla lotta mentale tra Allison e Ramon. Ramon la vuole, ma per il momento Allison vede solo uno sporco indiano che l'ha rapita. Ha paura di ciò che non conosce, ha sentito storie orribili di scalpi e torture ai  danni dei prigionieri, perciò lotta anche fisicamente contro di lui. Ramon è affascinato dal carattere indomito della ragazza e apprezza il suo spirito coraggioso e ribelle e le dice chiaramente che il motivo per cui l'ha rapita è che la desidera, ma non la vuole forzare, poichè non sarebbe dignitoso prendere una donna contro la sua volontà. Assicura ad Allison che aspetterà che anche lei sia pronta, anzi le dice che arriverà il momento in cui sarà lei a supplicare.
Nel periodo di convivenza forzata Allison capisce due cose: primo, che gli indiani non sono dei selvaggi sanguinari e secondo, che nella vita di Ramon al primo posto c'è la sua tribù. Infatti lui è il capo e da lui ci si aspetta che sappia sempre cosa fare. Nonostante col passare del tempo Allison cominci a nutrire sentimenti di rispetto e stima nei confronti dell'indiano, dentro di lei cova comunque sempre il rancore verso di lui per averle tolto la libertà di scegliere. Anche quando il loro rapporto si evolverà, diventeranno marito e moglie e l'amore fisico prenderà il dovuto posto nelle loro vita, Allison continuerà a provare quel sentimento nei confronti del marito. Dal canto suo, Ramon le dice che comprende il suo stato d'animo ma non la lascerà mai andare. E invece non è vero.... Durante una fuga per tornare al loro accampamento, dopo che erano stati fatti prigionieri, lei ha la possibilità di scappare e Ramon non fa nulla per fermarla, anzi, la sta a guardare mentre prende la sua decisione. E senza alcun dubbio è da suo marito che Allison si precipita.

Meraviglioso libro, e anche se Ramon con la bocca dice che comunque non gliene importa nulla che Allison non lo perdoni per averla rapita, dentro di sè, vuole l'amore incondizionato della moglie tanto che alla fine, la lascia libera di scegliere.
dal canto suo Allison, si aggrappa con volontà a quel sentimento di rancore che però si fa sempre più debole, poichè la sua rabbia e le sue paure, erano dovute più che altro al fatto di non sapere cosa aspettarsi. Mai avrebbe pensato di trovare una comunità dove vigono regole ferree di civile convivenza, di mutuo soccorso e di rispetto totale per l'altro. Certo le differenze culturali incidono molto sul rapporto che si instaura tra lei e gli altri e sopratutto tra lei e Ramon. Ma l'acume di Allison porterà Ramon a darle proprio ciò che vuole: l'uomo e non il capo. La paura più grande di Ramon è di perdere di stima all'interno della comunità se si lascia coinvolgere troppo dai suoi sentimenti per sua moglie. Ma anche questo non avviene, poichè come Allison impara a conoscere e ad accettare la comunità indiana, così la comunità indiana conosce e accetta Allison.


L'autrice ha fatto una notevole e accurata ricostruzione storica e questo mi piace molto, poichè da modo a chi legge di immedesimarsi in un pezzo di storia dell'umanità che ci ha portato fino ai giorni nostri. Certo col senno di poi uno può anche dire: non serviva sopprimere o rinchiudere in riserve gli indiani. ma il fatto è che secondo me, gli accadimenti di quel particolare periodo storico sono legati ad una cultura di supremazia di pochi eletti e di contro ad una dilagante ignoranza e povertà di molti. La storia della colonizzazione purtroppo è un pezzo di vita dell'umanità costellato da scontri, sangue, battaglie e soppressioni a danni di minoranze che nulla facevano se non rimanere legati alle loro terre e usanze. Purtroppo l'uomo bianco aveva dalla sua il progresso tecnologico (pensiamo ai fucili, navi da guerra ecc) e la fame di terre nuove da insediare e da coltivare. 

Alessandra.

Ed ora veniamo al cibo...che mangiavano gli Apache? Avevano un rispetto assoluto di tutto ciò che la terra produceva e nulla di ciò che raccoglievano e cacciavano andava sprecato.


Nelle desolate terre degli Apaches, Indiani stanziati nel Sud-Ovest degli Stati Uniti (Arizona, New Messico, Nord del Messico) uno dei primi cibi disponibili, all’inizio della primavera, era la yucca a foglie stretta, il cui gambo centrale veniva colto prima che apparisse il fiore. L’esile stelo era spesso mangiato subito dopo la raccolta, arrostito su un letto di carboni ardenti e privato della buccia esterna, carbonizzata.
Gli steli della yucca a foglia stretta non erano considerati dagli Apaches il cibo migliore, ma erano abbondanti e si conservavano bene, ciò che li rendeva preziosi, soprattutto nelle stagioni morte.
La tarda primavera era un periodo particolarmente impegnativo per tutte le comunità Apaches, dato che la loro più importante pianta alimentare, un’agave nota come “mescal”, matura in questa stagione. Il processo di preparazione era piuttosto complesso e gravava in genere quasi del tutto sulle spalle delle pazienti donne Apaches. Prima della fioritura, gli steli potevano essere tagliati e preparati come la yucca dalla foglia stretta, ma la parte più importante della pianta, il suo cuore, era contenuta nel cerchio di foglie immediatamente sopra le radici.
Di solito le donne raccoglievano e cuocevano il mescal in forni comuni. Per farlo occorreva scavare un enorme forno, profondo un metro e lungo fra i tre e i quattro metri, posizionato il più possibile al centro dell’area di raccolta. Il fuoco veniva acceso accompagnando l’operazione con preghiere e cerimonie rituali, e lo si lasciava consumare lentamente, poi vi veniva gettato sopra uno strato d’erba bagnata, spesso una trentina di centimetri; seguiva la sovrapposizione di un altro strato d’erba bagnata, e uno strato di terra (anch’esso di spessore sui trenta centimetri): su questo veniva posto il mescal, ricoperto da un altro strato d’erba bagnata. Sul cumulo così stratificato si accendeva, infine, un altro fuoco, che veniva lasciato ardere fino alla completa cottura del cibo: durata prevista, mediamente un paio di giorni. Una volta cotto, il mescal doveva essere rapidamente sottoposto a un procedimento di conservazione, pena il suo deterioramento. Il mescal cotto al forno ed essiccato, poteva venir conservato per lunghi periodi. Sapeva di zucca, ma era molto nutriente. Anche le cipolle selvatiche facevano parte della dieta apache, di solito servivano ad insaporire verdure e carni con le quali cuocevano assieme; ma potevano essere mangiate anche crude.
Nel corso della stagione giungeva a maturazione anche il primo arbusto di sommacco, le cui bacche rosse venivano raccolte, lavate ed essiccate; altre volte venivano invece tagliuzzate e mischiate, per variare con il mescal.
Oltre al mescal e alla yucca, nella immensa regione desertica crescevano molti cactus, dai quali si ricavava una notevole varietà di cibi. Tutti i frutti di cactus con un alto contenuto di zucchero potevano, in alternativa, venir ridotti ad una sorta di burro.
Innumerevoli furono poi le piante, le erbe, i vegetali selvatici, anche i più stenti e avari, che crescevano nell’arido e infuocato deserto del Sud Ovest, che consentirono, per molti decenni, agli Apaches un nutrimento essenziale, laddove i Bianchi, se isolati, perivano miseramente.
Fu proprio grazie a questa incredibile capacità di adattamento ambientale, di ricavare da terre desertiche e canyon riarsi un minimo di nutrimento e di rifugi essenziali, che si rese possibile l’indomabile resistenza opposta, fino all’ultimo scorcio dell’800, all’esercito americano da poche, ma irriducibili bande Apaches, riottose ad accettare d’essere relegate nelle Riserve, da tempo, com’è noto, predisposte dal governo di Washington, dove - alla stregua di tante altre nazioni indiane sterminate o sconfitte - avrebbero perduto con la libertà anche la loro identità umana e culturale.


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